La consapevolezza dei danni provenienti dall'uso abnorme e indiscriminato della plastica ha imposto la necessità di investire nella ricerca di nuovi materiali che possano svolgere le stesse funzioni avendo però un impatto diverso sul nostro ecosistema. Si tratta di materiali che pur somigliando alla plastica sintetica tradizionale, sia per leggerezza che per resistenza, sono decisamente più ecologiche e rispettose della salute del pianeta: parliamo delle "bioplastiche".
L'esperienza ci ha portato a comprendere che la plastica ha un elevato potenziale inquinante. Lo è a causa, ad esempio, dei lunghi tempi di degradazione o dal rilascio delle microplastiche le quali, disperse nell'ambiente, vengono inevitabilmente ingerite da animali ed esseri umani. Nonostante sia un materiale che nel tempo è stato sempre più demonizzato, viene ancora comunemente utilizzato, tutti i giorni, per bottiglie, piatti, bicchieri e contenitori, per le pellicole per alimenti, per gli imballaggi, per i sacchetti della spesa e per tutta una serie di oggetti di cui non possiamo fare a meno, dalle penne ai giocattoli, dai cosmetici ai componenti per le auto.
Le bioplastiche vengono più facilmente riassorbite dall’ambiente. Ed essendo prodotte a partire da fonti rinnovabili riducono l’utilizzo di materiali fossili e le emissioni di gas serra, risolvono i problemi di esaurimento delle materie prime, consentono insomma un sistema di economia circolare: il rifiuto diventa materia prima che dà origine a nuovi cicli produttivi. Si utilizzano per produrre shopper, piatti, bicchieri, vaschette, sacchi e anche alcune capsule per le bevande come il caffè e i contenitori dei gelati. Possono essere raccolte insieme all'umido domestico. Il compost che viene prodotto dal loro smaltimento migliora le caratteristiche chimiche fisiche del terreno e consente di accumulare lo stesso carbonio che a sua volta, contribuisce a diminuire la quantità di CO2 nell'atmosfera.
Per poter essere etichettate come bioplastiche, questi materiali devono soddisfare due requisiti: essere composti, almeno in parte, da materiali che derivano da biomasse (biobased) come mais, grano, tapioca, patate, canna da zucchero, oli vegetali, alghe e cellulosa; essere biocompostabili, ossia "scomponibili" dai microorganismi mediante un processo di decomposizione biologica. Le bioplastiche vengono a loro volta suddivise in tre categorie: non biodegradabili, biodegradabili a base biologica, biodegradabili di origine fossile (petrolio).
A che serve comprare oggetti compostabili se le industrie continuano a sfornare contenitori della temibile vecchia plastica? A questa domanda rispondiamo che addossare la colpa dell'inquinamento a produttori e distributori non risolve il problema. Può invece essere determinante un comportamento virtuoso che scoraggi i produttori dall'utilizzo di materiali inquinanti. Che vuol dire? Non possiamo convincere i produttori di acque minerali a non imbottigliare nella plastica, ma possiamo acquistare prodotti in vetro, usare borracce in alluminio o installare in casa apparecchi per la purificazione dell'acqua del rubinetto. Così come possiamo usare pellicole per alimenti biodegradabili o spugnette naturali, comprare le ricariche dei detersivi o, ancora meglio, prodursi i detergenti da soli... Tra i nostri comportamenti virtuosi potrebbe esserci anche quello di preferire gli esercizi commerciali che utilizzano imballi alimentari sostenibili.
Avendo alti costi di produzione, le bioplastiche hanno un prezzo finale del prodotto finito più alto della plastica comune. Sono quindi ancora lontane dal requisito di totale sostenibilità. Dobbiamo quindi ricordarci di smaltirle correttamente, riciclarle ogni volta sia possibile e non abbandonarle mai nell’ambiente.